Acqua Pubblica – il neoliberismo che piace a sinistra

di Ugo Mattei

Il neoliberismo che piace a sinistra
Sul manifesto di domenica il presidente di Publiacqua spa Erasmo D’Angelis tesse le lodi del modello toscano di gestione dell’oro blu. Assumiamo pure che la Toscana (o Cuba) siano, per ragioni di cultura politica generale, modelli «virtuosi» di misto.
Questo fatto, proprio come l’argomento per cui in certe realtà italiane a gestione pubblica le cose vanno malissimo, nulla apporta contro la necessità e la superiorità teorica del modello di gestione democratica ed ecologica dell’acqua che si ritiene di poter raggiungere tramite il referendum. Innanzitutto, la presenza di un pubblico disastroso non sta a significare che il suo “commissariamento” da parte del privato sia la soluzione migliore. A parte il fatto che esistono anche esperienze interamente pubbliche estremamente virtuose (mi piace ricordare qui quella di Cuneo), dobbiamo aver ben chiaro che il modello misto pubblico-privato declinato in funzione del profitto, garantito dalla legge Galli e poi da quella Ronchi, costituisce il miglior brodo di coltura dell’affarismo partitocratico ed autoritario. Esso pone le premesse istituzionali per la divisione leonina di costi e benefici (costi pubblici, benefici privati) laddove i secondi non sono solo benefici economici tout court per gli investitori privati (Acea, ecc) ma anche benefici per il personale politico o parapolitico coinvolto nella gestione mista. Si tratta di vantaggi altrettanto privati anche se meno visibili, che si concretizzano in termini di favori privati all’elite politica, se non direttamente in quattrini per le campagne elettorali. Non mi stupisce affatto che questo modello di gestione del “pubblico interesse”, tipico di gran parte del terzo mondo, possa purtroppo aver coinvolto anche l’acqua cubana. Il problema è la confusione fra l’interesse pubblico e quello delle élites politiche.
Ciò naturalmente vale anche per altre questioni, come per esempio la gestione dei rifiuti, e ancor più vistosamente le grandi opere pubbliche come la Tav o il Ponte sullo Stretto. Questo mi pare spieghi sia alcune delle posizioni del Pd, che continua a difendere il misto “for profit garantito” utilizzando la più screditata delle idee, quella per cui i soldi per gli investimenti li metterà il privato, sia la posizione che sta emergendo nell’Idv.
Premesso che nel Pd esistono posizioni apertamente referendarie quali quella di Roberto Placido, premiato con oltre 11.000 preferenze nel disastro del centrosinistra piemontese, mi pare chiaro che la posizione dei cosiddetti ecodem può soltanto considerarsi ipocrita. Ma come si fa a pensare che nel Parlamento più impotente della nostra storia repubblicana, dove una maggioranza trasversale larga come poche altre difende per le ragioni suddette il “misto for profit garantito” (dall’acqua all’ energia, alle grandi opere) possa avere qualsiasi speranza di passare una riforma che non garantisca al 100% i saccheggiatori del bene comune? Proprio questa osservazione ha convinto l’ intero arco di forze del “Forum Acqua Pubblica” ed il “Comitato Rodotà sì acqua pubblica” a convergere convintamente sulla soluzione referendaria. Realisticamente, infatti, tanto la legge di iniziativa popolare sull’acqua voluta dal Forum, quanto il progetto di legge delega sui beni pubblici della Commissione Rodotà non avrebbero forza politica sufficiente in questo Parlamento se non sostenuti da un imponente movimento di massa quale quello che potrebbe essere innescato dal referendum. A maggior ragione il referendum convince tutti quanti hanno a cuore il vero interesse pubblico (non quello delle élites di partito), per il fatto che i tre quesiti che abbiamo elaborato, attaccando direttamente il modello di gestione mista “for profit garantito”, pongono serie premesse teoriche per un nuovissimo modello di governo ecologico e democratico dei beni comuni, ispirato all’art. 43 della Costituzione, che finalmente inverta la rotta neoliberista.
E veniamo a Di Pietro. Ero presente con i compagni del Forum all’incontro con l’Idv (Di Pietro, De Magistris, Brutti) del 12 marzo scorso e. pur nello sconforto generale per un clima davvero povero dal punto di vista democratico, ero rimasto favorevolmente colpito per il fatto che Di Pietro avesse detto espressamente di voler far propri i nostri tre referendum. Su premesse comuni culturalmente e politicamente così nette e avanzate, avevo ragionato, si troverà certamente un’intesa di metodo. Mi ero sbagliato. Credo ora semplicemente che Di Pietro, fatti due conti, si sia reso conto di essere ormai parte di quell’élite politica il cui interesse privato, come quello di tutto il fronte partitocratico antireferendario, è ben servito dal “misto for profit garantito”. Come dicono i resistenti della Val Susa: sarà dura!