La futura classe dirigente

Nei giorni scorsi si è aperto sul quotidiano La Stampa un interessante dibattito sul rinnovamento e la formazione delle classi dirigenti.
Domenica scorsa è stato pubblicato un mio intervento che incollo qui di seguito. Mi piacerebbe avere qualche opinione e commento.

Il dibattito che si è aperto nei giorni scorsi sui criteri della selezione e della formazione delle classi dirigenti nella nostra città rappresenta – finalmente – uno spiraglio in un momento in cui la politica si concentra sulle contingenze, a scapito di una visione strategica del futuro.
Anche se, come sottolineato nelle teorie politiche, la cooptazione porta in sé elementi non democratici e si trova spesso in regimi aristocratici ed oligarchici dove rappresenta uno strumento di perpetuazione dello stretto gruppo dominante, esso ha avuto, a partire dai primi anni Novanta, in un momento di difficoltà, un ruolo importante nella trasformazione economica e sociale di Torino. Oggi, tuttavia, questo metodo mostra la corda, evidenziando tutti i suoi limiti e le sue storture.
Esiste un vero e proprio “blocco di potere” che impedisce il ricambio delle classi dirigenti: conserva riferimenti nelle vecchie rappresentanze, non riesce più a interpretare il mutamento sociale ed economico della società e non è in grado di instaurare un dialogo con una nuova generazione di imprenditori, professionisti, ricercatori.
Nel passato anche partiti politici con importanti tradizioni, utilizzavano la formula della cooptazione, ma all’interno di una visione generale e di un progetto preciso. Senza rinunciare, tuttavia, a periodiche verifiche democratiche.
Nella società moderna, le stesse organizzazioni di categoria (i famosi “corpi intermedi”) hanno come metodo per i propri rappresentanti il passaggio elettivo, che sta alla base della legittimazione democratica. Non esiste praticamente settore dove questo non accada.
Torino, invece, vive da troppi anni una dimensione particolare dove i cooptati non si limitano solo ad esercitare il compito per cui sono stati chiamati, ma contribuiscono a perpetuare il sistema senza verificare il proprio grado di rappresentatività. Con l’aggiunta, ancora più grave, di risultati non sempre positivi, come dimostrato dallo stato drammatico in cui versano i bilanci di alcuni importanti enti pubblici. Alla fine è poi la politica a risponderne presso l’opinione pubblica e i cittadini a pagarne le conseguenze dal punto di vista dei servizi offerti.
Oggi i processi di rinnovamento delle classi dirigenti si trovano davanti a forti resistenze esercitate da circoli ristretti e autoreferenziali che impediscono di fatto alle stesse categorie di settore di esprimere propri rappresentanti all’interno di importanti realtà. A meno che essi non passino al vaglio preventivo di chi concentra in sé, più o meno esplicitamente, il potere di determinare tali scelte.
Per quanto mi riguarda, siamo a tutti gli effetti alla fine di un ciclo, i cui risultati, se positivi o meno, saranno chiari solo fra qualche anno. Si pone pertanto una scelta: la continuazione di un sistema oligarchico e asfittico che impedisce alla nostra realtà di mettere completamente in evidenza le proprie potenzialità nella nuova società della conoscenza. Oppure – ed è questo il mio impegno – un ricambio generale, frutto di un rinnovamento profondo nelle idee e nei metodi, in un sistema che si fonda sulla legittimazione democratica e sulla naturale e periodica verifica dei risultati, così come avviene nelle moderne democrazie dove il cittadino è protagonista attivo.
I capisaldi di questo rinnovamento, va da sé, dovranno essere rappresentatività, merito, formazione e competenza. Il partito democratico deve svolgere un ruolo di primo piano in questo processo, gestendo il cambiamento, e intercettando alcuni preoccupanti segnali che ci giungono dalla società o, per esempio nel caso di Torino dalle periferie, pena una progressiva marginalità nel sistema politico e nel tessuto economico e sociale.